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Fayray
recensioni
Coperdina di EVER AFTER - Fayray
EVER AFTER
Album pubblicato il 06 Settembre 2000

Secondo album per Fayray, si diparte completamente dai turbini electropop di fine millennio, per approdare verso uno stile più sontuoso e addolcito, dalle pesanti influenze rock e con evidenti influssi dallo scenario jazz e bluesy. Il disco, da cui sono stati estratti soltanto due singoli, ha confermato comunque il buon successo del precedente, piazzandosi all'11ma posizione e vendendo oltre 65000 copie.
808 click, un solo voto degli utenti
di zefis90
Pubblicata il 13 Marzo 2010

Col cambio di millennio, sembra che anche la musica di Fayray abbia deciso di tagliare drasticamente con le deliranti interpretazioni da anonima vocalist da discoteca per puntare verso uno stile più maturo e decisamente più definito. Non che la eurodance in sé abbia costituito un punto a sfavore per il suo disco d'esordio, ma onestamente di tracce interessanti ce ne erano ben poche, il tutto un campionario abbastanza raffazzonato di un immaginario che stava letteralmente svanendo dalla scena mondiale. Meno male che “l'album della maturità”, “ever after”, decide di fornirci una Minako alle prese con una sfera musicale a lei ben più congeniale, una degna miscela tra rock e jazz che la premia negli sfoggi galanti della voce e nella bella pulizia melodica, a volte ancora nascosta in certi stilemi profusamente utilizzati, ma che comunque ha contribuito a dare il via ad una delle carriere più luminose del panorama nipponico (e onestamente, sono contento non sia mai stata così appariscente nel mainstream del Sol Levante, ha preservato la sua integrità musicale al massimo livello).

Iniziamo senza tanti complimenti con “give it back”, e già da subito si nota la lapalissiana differenza con l'esordio: chitarre in avanscoperta, basso e batteria volutamente enfatizzati e dai tratti fintamente “vocoderizzati”, Minako ha decisamente dato un'impronta totalmente diversa da quanto proposto sin ad allora. Brano tendente verso certo urban-rock di metà anni '90, emoziona e coinvolge in misura maggiore rispetto ad un qualsiasi brano di “CRAVING” (fatta eccezione per quel piccolo scrigno di tesori che è “SAME NIGHT, SAME FACE”), si trova una Fayray capace di proiettarsi con abile disinvoltura su una base che di rado aiuta cantanti dalle voci più melodiche e levigate come la sua, acquistando una maturità ed uno spessore che ha veramente dell'impressionante, considerando che solo un anno era incorso dal precedente lavoro. E il seguito non è da meno: “No, never (album version)” è un brano che si dischiude piano piano, apparentemente iniziando come un lento rilassato e disteso, per poi dare avvio ad un ritornello grintoso ed energico, accompagnato da qualche limato accordo di chitarra, e da un'ottima esecuzione di basso e batteria, che costituiscono, in tutto e per tutto, il punto focale del corpus strumentale del disco. Sicuramente non si trova la carica del pezzo d'apertura, in compenso la traccia guadagna molti punti in eleganza e grazia, proponendo un sound piacevole ma per niente forzato. “Sono ai no katachi”, è il primo lento vero e proprio del disco, dalla duplice anima: inizialmente sembra tradursi in una sospirata ballata urban, visti gli echi cittadini e i beats sintetici che si accavallano senza sosta, ma solo successivamente si rivela nella sua essenza, quella di bel lento, di piano ballad, che comunque nell'impiego della chitarra acustica trova anche degli sbocchi nel folk più sognante e aulico, coadiuvato in questo anche dai vocalizzi di Fayray, slanciati e molto ben inseriti nel contesto musicale, che comunque gioca il ruolo principale nella canzone. Buono, e sicuramente non inutile, l'interlude strumentale a circa un terzo dall'inizio del brano, solido, corposo, che mette in luce l'ottima valida dei musicisti di cui Minako si è circondata: niente è messo a caso, la strumentazione porta al massimo risultato emotivo e musicale sperabile. “All I Want, All I Need”, d'altro canto, si sposta nuovamente sullo scenario più rockeggiante presentato dall'album, con chitarre più cadenzate, ben più sontuose e vibranti nel loro incedere, con un ritornello tra i più accattivanti e trascinanti della sua carriera, non richiede molto tempo per entrare in testa. Il ritmo che si viene a formare è magico, un perfetto esempio di come da composizioni semplici si riescano a tirare fuori dei brani di ottimo livello (da notare inoltre Minako, più grintosa che mai in questo pezzo, tira fuori dei risvolti vocali che non ti aspetteresti). “If, I”, d'altra parte, è uno dei brani più amati tra gli estimatori della cantautrice, e anche a me non dispiace, ma sinceramente non riesce a persuadermi del tutto: Fayray si cala nel ruolo di conduttrice di una rock-band di gran classe, in una traccia che fa della sua brillante verve il punto di forza. Come sempre, lo spettro canonico degli strumenti esegue il suo compito egregiamente, ma quello che manca in parte alla traccia è l'anima, lo spessore tanto per chiarirsi: non ci si allontana di molto dalla congerie di pezzi pop-rock che da qualche anno prima aveva cominciato a contagiare il mercato discografico giapponese, senza alcun dubbio è un piacere constatare che Minako cerchi di dire la sua in questo genere al meglio, ma onestamente di composizioni del genere se ne aveva (già da allora!) poco bisogno. Fortuna che con “tears” ci si distoglie nettamente da quest'impronta: la canzone più conosciuta ed amata della cantante, oltre ad essere il suo singolo di maggior successo, è una ballata di quelle autentiche, la sua più vera ed ammaliante per antonomasia, mette in mostra nel suo eccellente inglese (come prevedibile d'altronde, visti i suoi passati trascorsi in quel di New York) tutta la sua intensità e il suo calore, presentandosi come una donna nostalgica, in attesa del suo tanto agognato amato. Testualmente forse il lento non ci propone niente di sostanzialmente particolare (Oh take me far away, and say that I can be your girl, and again again, tanto per citare i versi più lampanti), ma, in tutta onestà, questo è il minimo, quando ci si trova di fronte ad un'interpretazione magistrale, un'accorata dichiarazione di affetti, che mette da parte ogni riscontrabile difetto. Leggeri difetti che forse sono invece evidenti, e non trascurabili, in “Mite”, un pezzo che è paragonabile a quello di introduzione per l'impiego vocoderizzato della battieria, che la fa da padrone lungo tutto il corso della canzone, anche se in realtà, da quanto detto, si potrebbe pensare ad una ritmata e aggressiva traccia rock. Effettivamente certi tocchi di questo tipo ci sono, ma nel complesso la traccia è una ballata piuttosto carina, di quelle di difficile assimilazione. Assimilazione che comunque non porta a qualche rivalutazione così effettiva ed efficace, alla fine quello che se vuole, può anche colpire è la musica, come al solito molto ben strutturata ed intessuta, perché di certo la performance di Minako non è delle migliori (il timore che venisse scavalcata dal suo stesso sound emerge manifestamente in questa canzone). “Yakusoku” è un altro lento, ma diversamente dagli altri questo attinge a piene mani dallo scenario jazz-blues che tanto sarà adoperato da Fayray nei suoi dischi a venire (per sfociare poi al suo culmine in “HOURGLASS”, disco quasi completamente incentrato su queste tematiche). Pianoforte appena accennato, archi in sottofondo che, ci fossero o non ci fossero, in conclusione cambia poco, qualche accordo di chitarra a condire il tutto, per un lento sognante, ma nuovamente privo di grande pathos e sentimento. Non che per forza si deva cercare questo in un brano, ma se si recupera certi stilemi bluesy l'emozione deve venire fuori in tutto il suo impeto, e di tale operazione non ci sono poi così tanti indizi. In “shane”, chitarra, pianoforte e rumori vocali di sottofondo ci introducono in quello che più che canzone a tutti gli effetti è più corretto definire “lungo interlude”, visti i suoi due minuti e mezzo di durata circa. Ed è questo l'intento effettivo del pezzo, che ciò nonostante non è niente di così imprescindibile, è l'ennesimo lento di buona qualità ma poca sostanza che si riscontra lungo l'album, senza anche il minimo carnet di elementi tale da renderla più autentica, maggiormente personale, un branetto che vola via in un soffio. A seguire questa lunga fase altalenante, possiamo finalmente trovare la Fayray  nelle sue fogge migliori, splendida e fascinosa chanteuse jazz nella ironica reinterpretazione di un classico dei musical, “My Heart Belongs To Daddy”, sicuramente, anche per l'ambiente a cui si riferisce, la traccia più influenzata dal contesto blues e ai generi ad esso annessi. Piéce musicale intelligente ed umoristica sull'amore di una giovane protégée, Dolly Winslow, nei confronti del suo tutore, l'ambasciatore Alonzo P. Goodhue, viene ripresentata da Minako col massimo sentimento e sensualità, cantando in un inglese divino, degno di essere ricordato e sottolineato nella sua ottima qualità. In cuore mio, avrebbe veramente potuto arricchire il disco con molti più pezzi impostati su questi parametri invece che proporre la solita sviolinata di ballate che comunque mettono in nuce un talento compositivo ancora non chiaramente espresso. Cover che non ha niente da invidiare all'originale. Si conclude con “MY EYES”, brano che a livello di ricerca sonora e formale con il disco in questione ha veramente poco a che spartire: traendo ispirazione dal cosmo latinoamericano, e più precisamente dall'atmosfera danzereccia e goliardica dei carnevali, l'incastro col sound complessivo dell'album sembrerebbe essere forzato, invece offre una compagine divertente e scherzosa che ci sgrava un po' dalla patina malinconica che tutto il lavoro pare offrirci. Formidabile la performance di flauto che accompagna la cantante nella sua interpretazione, melodioso ma al contempo non fastidioso, getta una bella dimensione sperimentale su un album che solo a tratti affascina e presenta quella lucidità ben più lampante nei dischi del futuro.

Come secondo disco, per giunta più attinente al suo contesto d'adozione, magari era lecito aspettarsi un lavoro più strutturato nel suo insieme invece che ascoltare un accostamento tra due metà che cozzano spaventosamente una con l'altra, ma in sua difesa si assiste ai primi germi di quella maturazione che la porterà ad incidere una trafila di dischi uno migliore dell'altro, di quella affascinante complessità che la mette un passo in più in là di molte cantautrici del J-pop.

Qualità complessiva delle tracce: 7.5
Musica: 7
Voce: 8.5
Copertina: 6.5
7.38
Media dei voti degli utenti: 6.5
Clicca qui per i voti dettagliati
Opinioni sul disco ''EVER AFTER''
#01
Kikkokat
Voto: 6.5
http
mail
Non posso mettere piu' di 7 perchè troppe canzoni in questo album non mi hanno convinto. Beh c'è da dire che questo Cd contiene una bellissima canzone, "tears" che tutti gli amanti del cantautorato jpop dovrebbero sentire ALMENO una volta. Poi ci sono pezzi interessanti come "Give it back" molto rockeggiante e la trascinante "Yakusoku" che come scrive giustamente Zefis, innovera un sound che si sentirà molto nel disco "Hourglass". Ho trovato molto carine anche "Mite" e "All I Want All I Need" dal sound molto nordico, con queste chitarre e questi bassi che mi ricordano le cantautrici scandinave. Pezzi molto deludenti sono "MY EYES" (addirittura uscito come singolo! bleah), e pure "If I" mi ha lasciato dentro solo tanta noia...Le rimamenti tracce sono sul discreto, niente di eccezionale. Quest'album cmq è da ascoltare perchè è il primo che farà da apripista al nuovo sound che Fayray maneggerà in quasi tutte le opere succesive.
2010-03-14 00:21:22
 
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