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Salyu
recensioni
di zefis90
Pubblicata il 13 Febbraio 2016
Riproposta ed aggiornata il 29 Maggio 2016
Che gioia, gli artisti che si prendono i loro tempi, che non si affrettano immotivatamente, che se ne sentono la necessità prolungano le pause di distacco tra una pubblicazione e l'altra, a favore di qualcosa che sia maggiormente pensato, e non figlio della smania di essere sempre sul pezzo, a costo di bruciarsi ispirazione ed energie. Salyu questo d'altronde lo sa bene. Se si esclude il triennio tra il 2010 e il 2012, densissimo di progetti e attività, nella restante carriera i tempi di ideazione e progettazione del successivo passo discografico di peso non sono mai stati particolarmente ristretti, dando adito a un percorso musicale sviluppatosi con la dovuta velocità, senza il sovraffollamento realizzativo grossomodo tipico di tutto il j-pop. Dosare le uscite, e in questo modo mantenere vivide freschezza e creatività: il rischio di incorrere in passi falsi diminuisce esponenzialmente. All'altezza di “photogenic”, ci si stava per arrivare molto vicini, in un campionario di melodie fiacche e arrangiamenti spesso non all'altezza, come nel più ordinario degli album da classifica. Tre anni dopo, “Android & Human Being” dimostra l'assunto di partenza, in un'inversione di tendenza che ripristina gran parte dello smalto nella scrittura e prova a rimettere ordine in un versante musicale obiettivamente dispensabile negli ultimi tempi. Con una bella struttura teatrale, affidata a una brillante movimento di sipario, dinamiche sonore che spaziano dall'ambient al più scintillante indie-pop alla giapponese, e prove vocali di struggente eleganza, il quinto album solista di Ayako Mori conquista una grossa fetta del terreno precedentemente perduto, e rimette in sesto il progetto musicale di una delle voci più interessanti e ammalianti del panorama pop del Sol Levante. C'è da sperare a questo punto che la messa in sesto sia sulla strada della completa guarigione.
Con un'atmosfera sparsa, delicata, densa di riferimenti al quotidiano, il primo movimento di cui si compone la tripartita “Saki mawari shite” rappresenta un'apertura ben esplicativa di molto di quanto avviene a livello del disco, senza particolari sforzi produttivi che intacchino la “purezza” eterea del brano. Con il canto della Mori tra l'onirico e il sacrale, la melodia a descrivere scenari di grande calore interiore, il brano propone un leitmotiv, compositivo ma anche emozionale, che informa gran parte dell'album, interessato a illustrare calde mareggiate intime e ambientazioni rarefatte, che in quest'occasione non tardano ad avvicinarsi alle sperimentazioni più sommesse di una UA. “Hijou kaidan no shita”, nonostante il tocco più giocoso, divertito, dell'arrangiamento (la tastiera, con le sue ripetizioni e la sua brillantezza smaltata, amplifica le allegre vibrazioni della traccia), e bei cambiamenti melodici e sonori, non si allontana più di tanto dalle magiche sensazioni della succinta apertura. Nel gioco di vuoti e pieni causato dalla musica, si riesce ancora a trovare quella distensione, quel struggente senso di distensione psicologica, che permea alla fine anche gli episodi più coinvolgenti e ritmici del lavoro. Non si tratta di certo della canzone con il ritornello più memorabile della raccolta, questo va precisato, tuttavia è un elemento non di particolare rilievo, dacché ci sono particolari strutturali che impongono il brano all'attenzione dell'ascoltatore, volente o nolente che sia. Minore esuberanza rivela “Risk”, che però i suoi rischi, per l'appunto, se li prende comunque, e senza battere minimamente ciglio. Incentrata essenzialmente sul pianoforte, con sottili ricami elettronici a giocare di traverso al principale commento musicale, la canzone viaggia su coordinate stilistiche eleganti e dal taglio un po' “arty”, forte di una grinta nella scrittura che rifugge con decisione l'ovvio o peggio ancora, l'adesione a consunte affettazioni di chi vuole darsi un tono. Specialmente le strofe rivelano tutta l'intensità di cui sono state dotate, carburando in attesa di un'esplosione che non arriva mai, e che si concretizza invece in un ritornello leggiadro, del tutto funzionale alle bizzarrie in miniatura che Salyu si è concessa per questo brano. Più classicamente j-pop si profila “Kokoro no tane”, traccia vicina a convenzioni e stilemi ripresi da un'infinità di persone nel corso degli ultimi anni. Se è vero che la strumentazione esegue il suo lavoro più che dignitosamente, in un interplay di chitarra e pianoforte che non sfigura affatto, la melodia rimane soffocata però da cliché compositivi e un senso della progressione che non ne garantiscono il benché minimo respiro, che la recintano in uno steccato da cui è impossibile uscire. È davvero un peccato alla fin fine, perché con qualche soluzione sonora più ardita il brano non avrebbe faticato ad emergere con maggiore intensità, a mostrare un piglio più vispo di cui sarebbe in realtà provvista. “Yuushi tessen” rivela già un dinamismo completamente diverso, nonostante una certa ingenuità nella gestione dei synth, che minano un po' il mood complessivo del brano. Senz'altro però la melodia è salti quantici superiore rispetto a quella del pezzo precedente, e la sospensione onirica che informa la grana sonora sa regalare attimi di profondo rapimeno. “Saki mawari shite 2” riprende il leitmotiv canoro dell'installazione d'apertura, anche se quel pizzico di pianoforte in più accentua lo spaesamento sensoriale con una brillantezza indescrivibile. Gli effetti ambientali adoperati per l'interludio sono poi di assoluta finezza, riescono a descrivere i moti interiori dell'animo di Salyu con una precisione millimetrica, in un gioco di simbologie e significati che porta l'artista ad avvicinarsi pericolosamente ai territori calcati con lo splendido “s(o)un(d)beams” di qualche anno fa. “Festaria” già si pone in maniera del tutto diversa, complice un beat ben più marcato, e un attacco interpretativo ben più pimpante e sostenuto, come d'altronde lo stesso titolo pare suggerire. Manca forse il carisma di un arrangiamento che suonasse un po' meno vetusto (quel tocco di basso sposato all'elettronica 90's, piuttosto che risultare vintage, appiattisce le dinamiche della canzone), e riuscisse a spingere i bei tratti melodici oltre la semplice bontà della scrittura, tuttavia non si può di certo negare la piacevolezza generale di un brano dotato di bel piglio e grande grinta canora. Meglio nel complesso riesce a fare “Kanata”, imperniata su un brillante rock dalle tinte sintetiche, in cui strofe e ritornello riescono ad affiorare con l'intensità che nel precedente pezzo era purtroppo stata scongiurata. È un vero peccato che una canzone del genere non sia stata scelta come un possibile estratto, perché le credenziali per poterlo essere c'erano tutte, e comunque il mood generale dell'album non avrebbe avuto problemi ad affiorare anche con un simile motivo. Niente male comunque si rivela anche il primo singolo effettivo del lavoro, una “THE RAIN” che si presenta come ballata sofisticata ed emotiva, incentrata essenzialmente, com'era lecito aspettarsi, sul duetto tra pianoforte e voce. Un avvio che nasconde una bella sorpresa, dacché la traccia prende poi un percorso totalmente diverso e si apre a una composizione dai tratti fantasy-rock, per una piega che non avremmo avuto esitazioni ad associare a una AKINO o una May'n. Forse con un pizzico di sdilinquimenti in meno in fase di refrain ne sarebbe venuto un pezzo ancora più potente e necessario, ma anche così l'ammirazione per un brano così imprendibile, capace di tradurre l'onirismo in trame dal tocco intergalattico, resta abbastanza forte. Gira più a vuoto invece “Kibou to iu na no akari”, brano un po' troppo compresso nei cliché della classica canzone pop-rock giapponese, senza grossi elementi di rottura che ne indirizzino la strada in una chiave più peculiare e personalizzata. Fondamentalmente, l'unico elemento che la fa davvero stagliare è la sua durata (si tratta della traccia più lunga nell'intero lavoro), per il resto, siamo dalle parti di una rock-ballad priva di reali clamori. “Saki mawari shite 3” chiude la cornice descrittiva del lavoro, riprendendo gli stessi soffusi tratti melodici delle altre due parti, in un gioco compositivo che trova la sua strada in una ambient music rasserenante e angelica. Come raccordo musicale tra le varie parti, c'è da dire che la funzionalità di questa soave inserzione canora, in una suddivisione dei brani che ricorda molto le rappresentazioni teatrali, è intrigante oltre ogni misura. Non si tratta comunque della chiusura del disco, dacché spetta ad “Ai ni yukeru” trarre le dovute conclusioni. La progressione della linea canora è di quelle che difficilmente sbiadiscono nella memoria (e giustamente del brano ne è stato realizzato un singolo, in doppia a-side con “Line” ), e la qualità del pezzo, sposato all'intrigante tempra rock del comparto strumentale, viene esaltata da un accostamento di elementi che pongono l'accento sulla potente stazza della voce della Mori e sui notevoli dettagli in fase di arrangiamento. Era dai tempi di “Extension” che Salyu non pubblicava un singolo così entusiasmante: nel mezzo, ci sono corsi ben cinque anni. Con ben pochi peccati veniali (e quasi tutti da attribuirsi a una componente strumentale non propriamente all'altezza dei tempi e del passato discografico della cantante), e tanta voglia di rimettere in chiaro tutte le peculiarità di un progetto tra i più personali della musica giapponese, Salyu testimonia, con “Android & Human Being”, la sua voglia di “riscatto” e di mantenere intatto il suo carattere artistico. Forse i pinnacoli di “MAIDEN VOYAGE” e ovviamente “s(o)un(d)beams” non sono ancora a portata di mano, ma tutto sommato non è neanche necessario ripetersi in tal senso. Se continuerà ad operare di scarti rispetto alla convenzione, non ci sarà alcun dubbio che anche i suoi prossimi dischi saranno un successo. Qualità complessiva delle tracce: 7.5 Musica: 7.5 Voce: 8.5 Copertina: 8 Copertina Limited Edition/First Press: 8
7.9
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